Praxis clinica

Nella pluralità delle cure offerte è imperativo chiedersi quale posto occupi la praxis clinica fondata sull’inconscio, poiché l’unica scienza umana in cui il concetto di inconscio ha valore è la psicoanalisi.
Freud ha scoperto l’inconscio ed inventato la psicoanalisi da oltre un secolo, aprendo così un campo nuovo che oggi si trova ad essere saturato da vari tecnicismi e dalle diverse forme dispensatrici di risposte che otturano, attraverso il fare, un sapere peculiare: il sapere inconscio.
Riprendendo alcune parole di un piccolo paziente: “vengo qui per un motivo che non si sa?”.
La psicoanalisi non si esercita che a partire da una domanda di sapere. Di fronte ad essa lo psicoterapeuta può essere tentato di rispondere e saturare la questione dando del senso a ciò che il soggetto enuncia – ottenendo d’altro canto degli effetti di sollievo, ma legati ad una rassicurazione proveniente dall’altro, creando così una dipendenza transferenziale – lo psicoanalista, invece, interroga la stessa domanda. Il suo atto punta a sottolineare la dimensione di enigma.
Il soggetto, attraverso la sua domanda, la cui causa è il niente che l’analista dà, potrà delucidare le coordinate del proprio desiderio ed andare fino al non senso fondamentale che, come per ciascuno, lo fonda. L’inconscio che si decifra, è con esso che si lavora verso un sapere che non si sa, ed è attraverso esso che si articola la domanda. L’angoscia correlata è presente all’inizio della domanda e appare nel passaggio dal trattare il sintomo -posizione psicoterapeutica- ad accogliere il sintomo, come ciò che rivela il desiderio del soggetto.
La psicoanalisi è una terapia non come le altre, ma non è una psicoterapia. Lacan, nel Seminario “L’angoscia”, scrive che l’analista è responsabile, più che della guarigione, della posizione soggettiva del suo analizzante. La psicoanalisi punta a riconciliare il soggetto con il suo desiderio secondo le leggi umane, non ad adattarlo agli ideali familiari o sociali. L’atto psicoanalitico scalfisce, limita il godimento e decifra nel sintomo la parte che il soggetto ha in ciò di cui si lamenta.
Partendo da questa premessa, il lavoro che presento è un lavoro in-formazione, orientato dalla psicoanalisi lacaniana, che coniuga la teoria ad essa riferita con gli effetti della praxis clinica che ne discende e di cui ne è l’etica – come sostiene Lacan – affinchè casi clinici ricchi di insegnamenti continuino a favorire la trasmissione vivente di tale disciplina.
Un’elaborazione, dunque, che mette in primo piano l’inconscio nella clinica infantile, a partire da concetti cardine – come il desiderio di sapere – attraverso i quali è possibile far luce su temi attualmente molto discussi. Problematiche individuate nell’ambiente scolastico e familiare, come la “dislessia”, i“disturbi dell’attenzione”, l’“iperattività” e il ritardo del linguaggio.
Quando il bambino non è in grado di assimilare le conoscenze, è davvero perché non può farlo? Quando la scuola è causa di un pianto inconsolabile, siamo di fronte ad un capriccio?
Ritenere queste difficoltà causate da fattori cognitivi ed educativi è la prospettiva più diffusa ed adottata a livello sociale, perché è la via apparentemente più risolutiva per rispondere in tempi rapidi e con risultati tangibili alla domanda di guarigione che, come già detto, esclude il desiderio singolare del soggetto.
Domandarsi invece “da dove viene il desiderio di apprendere?[1]” apre il campo alla soggettività, all’individualità che va riconosciuta a ogni piccolo soggetto, consentendo di accogliere le questioni singolari per le quali è portato in consultazione, nella misura in cui, con l’ausilio di giochi e discorsi, può farsene portatore e metterle a lavoro.
Solo così è possibile intendere altro, altro che può iniziare ad articolarsi a partire dal proprio desiderio.

 


[1] Menès M., Il bambino e il sapere. Da dove viene il desiderio di apprendere?, La Scuola, Brescia, 2013